http://newslettereuropa.blogspot.com/2006/04/ufficio-politiche-comunitarie.html Newsletter sull'Europa - Coordinamento Toscano dei centri Europe Direct

29.12.10

 

Approfondimento

La politica industriale ed il contesto globale ed europeo
Europa 2020 è la strategia decennale di revisione degli obiettivi di Lisbona con cui si intende rilanciare l’economia dell’U.E. in essa vengono  individuati, come aspetti prioritari per lo sviluppo economico – sociale: la crescita intelligente, attraverso lo sviluppo di un’economia basata sulla conoscenza e sull’innovazione; la crescita sostenibile, mediante un’economia a basse emissioni di carbonio, efficiente sotto il profilo dell’impiego delle risorse e competitiva; la crescita inclusiva, per mezzo la promozione di un’economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale.
Nel quadro di questa visione strategica, nel novembre 2010 la Commissione ha emanato la Comunicazione COM(2010) 614 denominata “Una politica industriale integrata per l'era della globalizzazione Riconoscere il ruolo centrale di concorrenzialità e sostenibilità”, in cui si declina la strategia dell’U.E. in materia di Politica Industriale.
Il documento viene alla luce nell’era della globalizzazione, che si caratterizza per la sempre più stretta interconnessione tra le catene di valore internazionali; per la scarsità di risorse e materie prime; per l’elevata competitività della Cina, dell’india e Brasile; e per l’importanza assunta da fattori di competitività come la tecnologia, le TIC e le competenze professionali. In esso si sottolineano la centralità del settore del manifactoring per l’economia europea, l’importanza all’interno del comparto delle PMI (due terzi degli occupati del settore sono impiegati in PMI), e le grandi potenzialità dell’industria, che si desumono dalla circostanza che il comparto ha retto ampiamente l’impatto della forte concorrenza dei paesi emergenti e della globalizzazione, registrando, nel periodo precedente alla crisi finanziaria, buone performance.
In Questa Comunicazione la Commissione di Bruxelles riconosce la centralità del settore derivante dal fatto che l'80% di tutte le iniziative private di ricerca  e sviluppo condotte è attribuibile all'industria e dalla circostanza che un posto di lavoro su quattro dipende dall'industria manifatturiera ed almeno un altro posto su quattro rientra nella sfera dei servizi legati all'industria in quanto fornitori clienti. 
L’analisi della situazione attuale è la base su cui viene disegnata la strategia sulla politica industriale di Bruxelles che si prefigge lo scopo di affrontare la crisi mondiale e le sfide dell’economia globalizzata, adottando una strategia industriale articolata ed attenta che fa leva sulle potenzialità del suo manifacturing. L’intento della Commissione è quello di stimolare l’innovazione, la ricerca, la crescita  sostenibile, la cooperazione e l’internazionalizzazione delle imprese, oltre che l’uso razionale delle risorse sempre più scarse e la diminuzione delle emissioni. Gli obiettivi che si pone richiamano fortemente i principi di Europa 2020 e i sui propositi sono funzionali alla visione strategica decennale dell’U.E.

La strategia per il settore industriale
L’organismo di Bruxelles, nella Comunicazione COM(2010) 614, preso atto del contesto globale e dell’attuale crisi economico – finanziaria e delle caratteristiche  del settore industriale formula una strategia mirante: a un incremento della concorrenzialità, ad un aumento  dell’occupazione e ad uno sviluppo sostenibile, basata su un approccio che prende in considerazione la  politica dell’industria nella sua accezione più ampia, ossia:

Comprendente “le politiche che hanno un impatto sui costi, sui prezzi e sulla concorrenzialità innovativa dell'industria e dei singoli settori, come le politiche di normazione di innovazione o le politiche settoriali che interessano, ad esempio, i risultati conseguiti sotto il profilo dell'innovazione nei settori industriai”;
E che considera gli effetti sulla competitività prodotti da tutte le altre iniziative politiche, come quelle riguardanti: i trasporti, l'energia, il mercato unico la politica commerciale ecc.

Questo nuovo approccio ha come proposito generale: ”indirizzare l'economia dell'UE verso una crescita dinamica che rafforzerà la concorrenzialità dell'UE, assicurerà crescita e posti di lavoro e consentirà il passaggio ad un'economia a basse emissioni di carbonio e  che faccia un uso efficiente delle risorse”. Esso si basa sulla “convergenza fra una base orizzontale e un applicazione settoriale”, ovvero sulla creazione di un di un quadro intersettoriale che comprende l’intera materia della politica industriale, e su una considerazione attenta delle esigenze e delle specificità dei distinti settori.
Le azioni previste nel documento riguardano diversi aspetti decisivi per la crescita sostenibile del settore quali: il miglioramento del contesto normativo ed infrastrutturale; l’aumento delle possibilità d’accesso al credito e della competitività delle PMI, attraverso la promozione della cooperazione e dell’internazionalizzazione; il supporto alla concorrenzialità delle aziende industriali per mezzo del sostegno alla ricerca, allo sviluppo e all’innovazione, soprattutto in settori ad alto tasso d’innovatività come le nanotecnologie e i materiali avanzati; l’incremento dell’efficienza del reperimento e della gestione delle risorse primarie come l’energia e delle materie prime essenziali, in un’ottica di sostenibilità e di decremento delle emissioni di CO2. Per la realizzazione di tali azioni sono stati individuati diversi strumenti mirati come: la valutazione ex ante ed ex post della normazione riguardante il manifacturing, l’avvicinamento delle legislazioni, la creazione di un efficace ordinamento dei diritti di proprietà industriale e, in fine, il rafforzamento delle interconnessioni fra le reti energetiche e dei trasporti.

Conclusioni
La strategia dalla Commissione sulla politica industriale europea nasce alla luce della situazione creata dalla crisi economico - finanziaria  mondiale e della globalizzazione e focalizza la sua attenzione sulle tematiche e gli obiettivi di “Europa 2020”: l’innovazione, la crescita economica basata sulla conoscenza, lo sviluppo sostenibile e le problematiche sociali relative all’occupazione. Secondo Bruxelles, inoltre, l’industria assume un ruolo essenziale nei confronti dei temi di Europa 2020, dato l’alto tasso d’innovatività e d’investimento in R&D del manifacturing e l’elevato numero di lavoratori impiegati.
La coerenza con la nuova visone strategica decennale, la contestualizzazione delle strategie rispetto al panorama globale ed alla crisi economica  della Comunicazione della Commissione e un approccio che tiene conto delle specificità dei diversi settori compresi nell’industria, pur considerando il settore nella sua accezione più ampia, inclusiva di tutti i beni e i servizi ad esso strumentali, sono tre evidenti pregi della Comunicazione.          
Il documento  disegna un’articolata un’architettura che mira a far convergere una base intersettoriale, che tiene conto delle strette relazioni tra un settore come quello del manifacturing considerato in senso lato (comprensivo di tutte le produzioni e i servizi strumentali e connessi) con un’attuazione consapevole e rispettosa tutte le specificità dei diversi ambiti produttivi. L’innovazione, la ricerca, la cooperazione e l’efficienza del quadro normativo riguardano tutta l’industria, poiché sono temi generali rilevanti per il suo sviluppo, tuttavia, questi assumono caratteristiche e rispondono ad esigenze diverse nelle differenti produzioni e nelle attività connesse e strumentali.
Dall’atto si nota con chiarezza la consapevolezza della centralità e dell’importanza del settore, nonché l’attenzione allo sviluppo di un comparto che gioca un ruolo chiave per la crescita dell’Europa in termini economici ed in ambito sociale e le risposte che si cerca di dare sono, seconda la presente valutazione, pensate con sapienza dalle istituzioni comunitarie.
L’approccio proposto nasce dall’analisi delle precedenti esperienze ed è frutto di una grande riflessione sulla crescita industriale. Il documento è di grande qualità. Tuttavia, molti problemi rimangano aperti, come quello fondamentale sull’entità delle risorse disponibili per supportare le politiche comunitarie, a riguardo proseguono le discussioni sul prossimo bilancio U.E.. Proprio il possibile decremento di fondi, comunque, ha stimolato una pianificazione più attenta e più efficace.

Esistono, in fine, gravi incognite per il successo delle politiche comunitarie legate all’ attuazione delle decisioni di Bruxelles all’interno degli stati, questo aspetto problematico è segnalato abbondantemente all’interno della Comunicazione e da esso dipende, in gran parte, il successo delle stesse politiche. Si dovrà pertanto valutare l’efficacia  degli strumenti che verranno messi in atto  per garantire l’applicazione in ambito nazionale delle strategie dell’Unione Europea.

 

Approfondimento

Energia 2020
La Commissione Europea ha presentato il 10 novembre scorso una Comunicazione dal titolo “Energy 2020 - A strategy for competitive, sustainable and secure energy”. Questo documento si inserisce nel percorso volto a delineare concretamente la strategia di Europa 2020, con particolare riguardo al tema dell’energia.
Il documento si basa sull’idea che la riduzione delle emissioni di gas serra e lo sviluppo di una economia ecosostenibile sia necessario sia dal punto di vista della competitività che da quello della sostenibilità ambientale. A beneficiare di tali cambiamenti sarebbero soprattutto i cittadini, grazie ad approvvigionamenti energetici più economici e più sicuri.
La nuova strategia energetica dell’UE è articolata su cinque priorità, ognuna delle quali è specificata da diversi punti di azione. Le priorità sono le seguenti:

Risparmio energetico
La Commissione sostiene l’obiettivo di aumentare l’efficienza energetica del 20% entro il 2020. A tal fine, occorre intervenire su tutti gli stadi della catena energetica, dalla produzione al consumo finale, passando per la trasmissione e la distribuzione. I settori con il maggiore potenziale in termini di guadagni di efficienza sono quello dell’edilizia e quello dei trasporti. Possibili strumenti in questa direzione prevedono una revisione della direttiva sulla tassazione energetica, un maggiore utilizzo dei fondi regionali dell’UE e il ricorso più frequente alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Gli enti pubblici in questo campo devono dare il buon esempio, usando criteri di efficienza energetica in tutti gli appalti di lavori pubblici. Per quanto riguarda il settore privato, uno stimolo alla competitività delle imprese europee verrà dato sia tramite la definizione di nuovi requisiti energetici, sia tramite la valorizzazione di accordi volontari con imprese del settore. Un altro aspetto meritevole di attenzione è quello dello sviluppo degli aspetti gestionali (audit, manager energetici…) nei settori industriali e dei servizi. Inoltre, le compagnie di distribuzione dovranno fornire al pubblico e ai consumatori dettagliate informazioni sul proprio operato in tema di risparmio energetico.
Nel 2011 la Commissione presenterà un “Piano per l’Efficienza Energetica”, affiancato da concrete proposte regolative. Verrà inoltre a breve pubblicato un Libro bianco sulla politica dei trasporti del futuro, con proposte di misure volte a migliorare la sostenibilità e a ridurre la dipendenza dal petrolio. All’azione della Commissione dovrà essere affiancato un sistema più rigoroso di benchmarking e controllo annuale dei Piani d’Azione Nazionali di Efficienza Energetica.

Libera circolazione dell’energia
Ad oggi, il mercato dell’energia – dell’elettricità e del gas in particolare – è ancora troppo frammentato. La Commissione ha fissato il 2015 come termine per il completamento del mercato interno dell’energia. Una maggiore interconnessione, infatti, assicurerà prezzi più competitivi.
Per raggiungere gli obiettivi fissati per il 2020, secondo le stime della Commissione, saranno necessari circa 1000 miliardi di euro di investimenti infrastrutturali. Nel 2011 la Commissione proporrà nuovi strumenti per definire e implementare le priorità strategiche dell’UE in tema di infrastrutture.
Tra le idee presentate dalla Commissione vi è quella di armonizzare le procedure di autorizzazione per i progetti di interesse europeo e di rafforzare il quadro regolatorio comunitario. Infine, considerando che buona parte delle infrastrutture richieste sono di natura commerciale, l’accesso ai finanziamenti dovrà essere migliorato per stimolare gli investimenti privati.

Scorte e rifornimenti sicuri
Un altro obiettivo della Commissione è quello di dare certezza ai diritti dei consumatori e garantire approvvigionamenti energetici sicuri e affidabili. Sul fronte della tutela dei consumatori, verranno migliorati il monitoraggio dei costi delle bollette energetiche, la comparabilità delle tariffe e la trasparenza da parte dei fornitori. L’aspetto della sicurezza è particolarmente rilevante nel campo dell’energia nucleare, e sarà al centro della revisione delle Direttive già presenti in questo campo.

Stimolo alla leadership tecnologica
Naturalmente, il passaggio verso una “economia verde” deve essere accompagnato da un forte impegno tecnologico per lo sviluppo delle fonti di energia rinnovabili. In primo luogo, la Commissione si impegna a garantire una piena implementazione dello Strategic Energy Technology Plan, presentato nel giugno scorso per accelerare lo sviluppo delle tecnologie “low-carbon”, tramite uno stanziamento addizionale di 50 miliardi di euro. Un altro obiettivo della Commissione è quello di ridurre la distanza tra ricerca pura e innovazioni tecnologiche in campo energetico, tramite lo sviluppo di infrastrutture strategiche europee della ricerca sull’energia.
Inoltre, la Commissione lancerà quattro progetti europei di grande scala sui temi delle reti intelligenti di interconnessione delle centrali elettriche, dello stoccaggio dell'energia elettrica, della ricerca sui biocarburanti di seconda generazione e del partenariato tra "città intelligenti" per promuovere il risparmio energetico a livello locale.

Negoziazione effettiva con i partner internazionali
Buona parte dei partner internazionali dell’UE in campo energetico sono Paesi vicini. Pertanto, la politica di vicinato deve essere strettamente connessa a quella energetica. Nell’ambito di questa politica, la Commissione propone di estendere e di approfondire il trattato che istituisce la Comunità dell'energia ad altri paesi che intendono partecipare al mercato UE dell'energia, con un’attenzione particolare al continente africano.

Quale energia per l’Europa?
Nel 2007 il Consiglio Europeo ha adottato gli obiettivi di ridurre entro il 2020 le emissioni di gas ad effetto serra del 20% (del 30%, in caso di collaborazione da parte degli attori internazionali), di aumentare fino al 20% la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili e di ottenere un miglioramento dell’efficienza energetica del 20%. Questi obiettivi sono molto ambiziosi, in particolare dopo la battuta d’arresto registrata al vertice di Copenhagen nel dicembre 2009. Per contribuire a rendere effettivi questi impegni, la Commissione si è impegnata a proporre iniziative legislative concrete nei prossimi 18 mesi. Una legislazione più stringente, unita alla revisione delle direttive esistenti, costituirebbe un buono stimolo al cambiamento del “paradigma” energetico dell’UE. Anche in questo ambito, comunque, fondamentale risulterà l’apporto e la determinazione dei singoli Paesi. Il 4 febbraio 2011 si terrà un Consiglio Europeo specificamente dedicato ai temi dell’energia. E’ improbabile che da questo evento scaturiscano iniziative concrete. Tuttavia, dal punto di vista politico, si tratterà di un importante banco di prova per comprendere le reali ambizioni degli Stati membri.

 

Approfondimento

Verso una Innovation Union
La Commissione Europea ha presentato il 6 ottobre 2010 una Comunicazione che delinea il percorso verso la Innovation Union. Ideata per promuovere la crescita verde e il progresso sociale, la Innovation Union concentrerà le attività di tutta l'Europa su problematiche chiave come i cambiamenti climatici, l'energia e la sicurezza alimentare, la salute e il cambiamento demografico legato all'invecchiamento della popolazione.

Il contesto economico e sociale
La Comunicazione della Commissione si inserisce nel processo di definizione di una strategia europea per il raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020. Un maggiore investimento nell’innovazione è infatti considerato come uno degli elementi cardine della nuova strategia che deve caratterizzare l’intero programma politico dell’UE nei prossimi anni.
Il contesto in cui si inserisce la comunicazione è quello della crisi economica internazionale e della lenta ripresa che caratterizza i Paesi dell’UE. Se alcune delle difficoltà sono contingenti all’infelice congiuntura internazionale, altri problemi sono più strutturali. La perdita di competitività dell’Europa è un fenomeno che dura da molti anni e che ha tra le sue cause una diffusa difficoltà ad innovare. Una maggiore carica innovativa sarebbe auspicabile sia dal punto della competitività delle imprese europee, sia dal punto di vista della capacità di dare risposte a problemi comuni ai Paesi europei, quali le esigenze di maggiore efficienza della pubblica amministrazione e i problemi sociali ed economici legati all’invecchiamento della popolazione.
La spesa per la ricerca e sviluppo (R&S) è in Europa assai inferiore a quella delle economie comparabili alla nostra (Stati Uniti e Giappone in primis). L’obiettivo per il 2020 sarebbe quello di innalzare la spesa per R&S fino al 3% del PIL, ma attualmente la media europea è inferiore al 2%.
La comunicazione è stata preceduta da diversi studi, il più importante dei quali è “The Cost of a non-innovative Europe”, di P. Zagamé (2010), a supporto della convenienza economica di un maggiore investimento nella ricerca. Inoltre, congiuntamente alla comunicazione è stato pubblicato un documento di accompagnamento (A rationale for action), con dati a supporto delle tesi della comunicazione. A titolo di esempio, si afferma che un aumento della spesa per R&S fino al 3% del PIL potrebbe creare fino a 3,7 milioni di posti di lavoro e aumentare il PIL annuo di ben 795 milioni entro il 2025. L’operazione richiederebbe però un notevole sforzo in termini di investimento: basti pensare che, per sfruttare tutto il potenziale della Innovation Union, sarebbero necessari 1 milione di ricercatori in più.

La Comunicazione della Commissione
Il documento della Commissione ruota intorno alla necessità di risolvere alcuni aspetti critici della politica di R&S europea. In particolare, vengono evidenziati i seguenti dieci punti:
A sostegno della Innovation Union, la Commissione ha individuato oltre trenta punti di azione nell’ambito della conoscenza, della commercializzazione delle idee, dei benefici sociali a livello regionale, dei partenariati dell’innovazione e della cooperazione a livello internazionale. I punti più  salienti della comunicazione, in termini di proposte, sembrano essere i seguenti:

Quale futuro per l’Innovation Union?
La ricerca e l’innovazione costituiscono campi in cui in un forte coordinamento e impulso europeo è particolarmente conveniente. Unendo le forze, rilevanti economie di scala sarebbero attivabili, con importanti guadagni in termini di efficienza e di risultati. I costi della duplicazione di programmi di ricerca a livello nazionale non sono più sostenibili, in particolare in questo momento storico di difficoltà economica. La via più efficace per rilanciare la politica europea dell’innovazione consiste in un aumento delle risorse stanziate a livello comunitario per la R&S, congiuntamente ad un maggiore coinvolgimento delle imprese. Se la Comunicazione della Commissione sembra andare in questa direzione, il Consiglio Europeo di dicembre 2010 contribuirà a chiarire la portata concreta delle iniziative proposte. Ancora una volta, molto dipenderà dalla disponibilità degli Stati membri di stanziare risorse in un’ottica di investimento che superi i confini nazionali.

28.12.10

 

Approfondimento

La revisione del budget dell'Unione Europea
Lo scorso 19 ottobre la Commissione Europea ha pubblicato la Comunicazione sulla revisione del budget dell’Unione Europea (.pdf). Tale comunicazione era stata richiesta dal Consiglio Europeo di dicembre 2005, con lo scopo di esaminare tutti gli aspetti riguardanti le spese e le risorse europee. In questa richiesta era inoltre presente uno specifico riferimento a due delle questioni più controverse e politicamente sensibili del dibattito sul budget europeo, ovvero la Politica Agricola Comune (PAC) e il “ribasso britannico”. La Comunicazione si inserisce anche nel processo di definizione delle nuove prospettive finanziarie per il periodo 2013-2020.

Il budget dell'Unione
L’idea che la Comunità Europea dovesse disporre di un budget indipendente da quello degli Stati membri è presente fin dagli inizi del progetto dell’integrazione europea. In origine le spese della Comunità Europea erano finanziate esclusivamente con risorse proprie, provenienti prevalentemente dai dazi doganali comuni imposti sulle importazioni da Paesi terzi. Il progressivo aumento delle attività della Comunità, congiuntamente con la riduzione dell’entità dei dazi in seguito ai vari accordi GATT, resero presto necessario il ricorso a nuove fonti di finanziamento. A tal fine, nel 1970 venne introdotta l’imposta sul valore aggiunto (IVA), i cui introiti vengono percepiti a livello nazionale e in seguito in parte destinati alla Comunità Europea. Negli anni ’80, come noto, il processo di integrazione conobbe una fase di slancio, con il trasferimento di molte nuove competenze dal livello nazionale a quello comunitario. Inoltre, negli stessi anni la politica di coesione diventò una delle principali priorità politiche della Comunità, con evidenti conseguenze in termini finanziari. Pertanto, una nuova riforma del sistema delle risorse si rese necessaria. Nel 1988 fu stabilito che parte delle risorse della Comunità fosse finanziato direttamente dagli Stati membri, in proporzione rispetto ai budget nazionali. Negli ultimi decenni questo tipo di risorsa è diventato sempre più rilevante, fino ad alimentare oggi circa il 76% del budget dell’Unione. L’IVA e le risorse proprie tradizionali (prevalentemente dazi doganali) si attestano entrambe intorno al 12%.
A questo quadro occorre aggiungere il cosiddetto “ribasso britannico”. Secondo un accordo siglato tra la Comunità Europea e il Regno Unito, quest’ultimo ha diritto ad un rimborso pari al 66% della differenza tra il proprio contributo al budget europeo e la quota di questo budget che viene allocata nel Regno Unito. Questo accordo, tuttora in vigore, fu siglato nel 1984 affinché il Regno Unito accettasse di finanziare un budget all’epoca dominato dalla Politica Agricola Comune, dalla quale il Regno Unito non traeva alcun beneficio. Oggi, in seguito ad ulteriori accordi, altri quattro Paesi (Germania, Paesi Bassi, Austria e Svezia) godono di un “ribasso sul ribasso”, legato a quello del Regno Unito ma di entità inferiore.

L’entità del budget europeo è stabilità con una decisione unanime dei Paesi membri per un periodo di sette anni, corrispondente alla programmazione finanziaria dell’Unione (prospettive finanziarie nella terminologia del Trattato di Lisbona), anch’essa di durata settennale. L’ammontare del budget è pari a 864,3 miliardi di euro per il periodo 2007-2013 (120,7 per il 2008), pari a poco più dell’1% del PIL complessivo dell’Unione Europea.
Sul fronte della composizione della spesa, le due voci principali sono rappresentate dalla PAC e dalla politica di coesione, ognuna delle quali rappresenta poco più del 40% della spesa totale. L’allocazione del budget comunitario è un tema molto dibattuto. L’importanza del ruolo della PAC, in particolare, è criticata da molti sia per ragioni di efficienza – si tratta sostanzialmente di sovvenzioni a fondo perduto in un settore non competitivo a livello internazionale – sia perché a trarre beneficio da questi finanziamenti sono solo i Paesi con un settore agricolo rilevante (soprattutto Francia e Paesi dell’Europa centro-orientale). In ogni caso, il peso della PAC è molto diminuito rispetto al passato, ed è destinato a essere ulteriormente ridotto nei prossimi anni.

La comunicazione sul budget revuew
La Comunicazione della Commissione risponde ad una richiesta del Consiglio Europeo ed è stata preceduta da una consultazione pubblica con la quale la Commissione ha ricevuto quasi 300 contributi da istituzioni pubbliche e private, da centri di ricerca e da singoli cittadini.
La Comunicazione prende in considerazione i seguenti aspetti critici del budget dell’Unione:

Il documento della Commissione, come si vede, è orientato soprattutto a sottolineare i problemi di efficienza ed efficacia della spesa dell’Unione. Le questioni del volume complessivo del budget e delle fonti di finanziamento, molto delicate dal punto di vista politico, sono lasciate in secondo piano. In questo senso, è indicativo il rilievo dato all’obiettivo di ridurre i costi amministrativi dell’UE, pari oggi al 5,7% del totale del budget.
Si afferma poi che ogni riforma futura del budget europeo dovrà prendere in considerazione in maniera congiunta l’aspetto del volume e dell’allocazione della spesa e quello delle fonti di finanziamento. Questo approccio olistico alla riforma del budget è inevitabile a causa sia della sensibilità politica del tema sia della necessità dell’unanimità degli Stati membri per adottare la riforma stessa. Questi elementi fanno sì che ogni possibile riforma debba nascere sotto forma di “pacchetto” di accordi tra Stati membri, che comprenda tutti i punti salienti riguardanti il budget dell’Unione.
Con particolare riguardo alla questione delle risorse proprie, la Comunicazione fa riferimento alla possibilità di introdurre una nuova tassa europea per garantire delle vere risorse proprie all’Unione, ormai fortemente dipendente dai contributi degli Stati membri. Questa situazione, come detto in precedenza, favorisce la diffusione della logica del “giusto ritorno” e limita l’autonomia politica dell’UE rispetto ai governi nazionali. Una tassa europea potrebbe avere obiettivi sociali (sulle transazioni finanziarie), ambientali (trasporti aerei, carbon tax) o di altro tipo (una ridefinizione dell’IVA).
A proposito delle due principali fonti di spesa del budget (CAP e politica di coesione), la Commissione ribadisce sostanzialmente le proprie posizioni politiche, senza soffermarsi sulle questioni del volume di queste voci e delle proposte di rinazionalizzazione di queste politiche. In riferimento alla PAC, si sottolinea la progressiva evoluzione verso politiche di sviluppo rurale e ambientale. Per quanto riguarda la coesione, si ribadisce che essa deve avere un ruolo non solo redistributivo, ma anche e soprattutto di supporto alla strategia di Lisbona. A tal fine, la Commissione propone di concentrarsi su pochi e determinati obiettivi, che convoglino le risorse dei vari fondi già esistenti. La Commissione si propone quindi di adottare un quadro strategico comune che traduca gli obiettivi di Europa 2020 in priorità di investimento. Inoltre, i Programmi Nazionali di Riforma per l’attuazione della strategia di Lisbona potrebbero includere una sorta di contratto di partenariato per lo sviluppo e l’investimento, che presenti in maniera più stringente gli impegni presi dagli Stati e dalle loro regioni.

Quale futuro per il budget dell'UE?
Un punto importante sottolineato dalla Comunicazione riguarda la necessità di legare più strettamente il budget all’agenda politica dell’UE. Il budget dovrà quindi sostenere e promuovere una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, in supporto alla nuova strategia di Lisbona. In particolare, l’UE dovrà fornire sostegno finanziario al perseguimento dell’Agenda 2020 e al raggiungimento degli obiettivi in essa fissati.
Questo tentativo di “politicizzare” maggiormente il budget è importante anche dal punto di vista mediatico, visto che questa materia è spesso considerata di natura tecnica e poco seguita dall’opinione pubblica. Il budget dell’UE rappresenta del resto non solo uno strumento imprescindibile per la realizzazione delle politiche comunitarie, ma anche una sorta di cartina di tornasole del peso che realmente è dato, a Bruxelles e soprattutto nelle capitali europee, alle priorità dell’Unione. In questo senso va anche la proposta della Commissione di portare la durata delle prospettive finanziarie a cinque anni (o più probabilmente a dieci con una revisione dopo cinque). In questo modo, ogni documento di programmazione finanziaria sarebbe chiaramente riconducibile al Parlamento Europeo e alla Commissione in carica.
La Comunicazione della Commissione può per certi versi essere considerata come il reale avvio del processo di negoziazione delle prospettive finanziarie 2013-2020. Il risultato di questa negoziazione sarà decisivo per l’evoluzione dell’integrazione europea nei prossimi anni. Le risposte sui punti cruciali, riguardanti il volume e l’allocazione del budget e l’ammontare delle risorse proprie, costituiranno un indicatore affidabile dell’ambizione politica dell’Unione.

 

Approfondimento

Il diritto di libera circolazione e la questione dei Rom
Nel corso degli ultimi mesi la situazione dei Rom, ed in particolare i suoi sviluppi in Francia, ha destato l’attenzione tanto dell’opinione pubblica europea, quanto delle istituzioni comunitarie. Questo argomento riguarda strettamente legislazione comunitaria sulla libera circolazione dei cittadini  all’interno del territorio dell’Unione Europea. Infatti, sebbene la tutela dell’ordine pubblico e la promozione dell’integrazione, tanto sociale quanto economica, della popolazione Rom siano essenzialmente responsabilità di ogni stato membro, è altrettanto vero che, trattandosi di cittadini comunitari, è necessario che per quanto concerne il loro trattamento venga rispettata la legislazione europea, nello specifico le regole sulla libera circolazione e sulla non-discriminazione e la Carta Europea dei Diritti Fondamentali.
Da una parte infatti il diritto dell’Unione europea riconosce ai cittadini degli Stati membri uno standard di trattamento ben diverso (essenzialmente fondato sulla parità di trattamento) rispetto a quello dei cittadini degli Stati terzi, sia ponendo precisi, eccezionali limiti al potere dei Governi nazionali di allontanare i cittadini dell’Unione, sia riconoscendo a loro favore un’ampia serie di garanzie. Dall’altro, l’ordinamento comunitario sancisce anche il divieto di discriminazioni, in particolare di quelle fondate sulla razza, l’origine etnica o sociale, o l’appartenenza a una minoranza nazionale.
Dal momento che gli argomenti politici si sono mescolati a quelli più strettamente giuridici, creando una certa incertezza circa una corretta (almeno dal punto di vista giuridico) valutazione degli eventi, appare utile fornire una breve panoramica del quadro giuridico europeo in questione e una sintetica analisi degli eventi che si sono sviluppati negli ultimi mesi, tanto a livello nazionale, quanto europeo.

Diritto di libera circolazione e non discriminazione
Nell’architettura giuridica comunitaria, la libertà di circolazione costituisce una delle libertà fondamentali di tutti i cittadini dell’Unione Europea. La base legale di questo diritto risiede nel Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea che, secondo l’articolo 21(1), garantisce a tutti i cittadini comunitari il diritto di circolare e soggiornare liberamente all’interno del territorio dei 27 stati membri. Il diritto di circolazione riceve dunque la tutela di più alto livello, essendo menzionato inoltre all’interno della Carta Europea dei Diritti Fondamentali (articolo 45), resa giuridicamente vincolante per tutti gli stati membri con l’approvazione del Trattato di Lisbona. Tale diritto non riceve tuttavia una tutela incondizionata, ma è soggetto alle limitazioni e alle condizione espresse all’interno della Direttiva sulla Liberta di Circolazione 2004/38 del 29.4.2004 “relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri”, che ha modificato il regolamento 1612/68 sulla libera circolazione dei lavoratori subordinati e abrogato le nove direttive preesistenti sulla libera circolazione, ingresso e soggiorno.
Nel caso di cittadini provenienti dai due paesi di nuova accessione, ed è questo il caso dei cittadini di origine Rom (in maggioranza provenienti da Romania e Bulgaria), ulteriori condizioni, seppur transitorie, sono imposte dai Trattati di Adesione firmati dagli stessi stati il 25 aprile 2005. In linea con le previsioni transitorie, la Francia impone l’obbligo per i cittadini bulgari e rumeni di ottenere un’autorizzazione al lavoro, almeno per un determinato numero di attività, prima di fare ingresso sul proprio territorio; della disciplina transitoria si è avvalsa pure l’Italia, ma per un periodo più limitato (fino al 31.12.2010, e per un assai limitato ambito di attività).
Secondo la direttiva del 2004, per il soggiorno fino a tre mesi, l’unica limitazione alla libera circolazione è il possesso di un valido documento di identità; gli stati membri non possono imporre altre condizioni.
Se un cittadino comunitario decide di prolungare il suo soggiorno deve essere “economicamente attivo” o possedere sufficienti risorse per non diventare un peso per il sistema sociale e avere un’assicurazione sanitaria. Se il cittadino non riempie queste condizioni, non ha diritto di soggiorno e lo stato ospite può decidere di chiederne l’allontanamento. Anche con riguardo alla situazione dei Rom, è importante sottolineare che, prima di emettere il provvedimento di espulsione, lo stato ospite deve condurre un esame della situazione individuale del soggetto. Lo stato membro è obbligato inoltre a condurre una valutazione in merito alla proporzionalità della propria decisione. La legislazione comunitaria richiede dunque che venga sempre effettuata una valutazione caso per caso, anche nell’eventualità in cui il motivo dell’allontanamento sia legato a questioni di ordine pubblico o di pubblica sicurezza.
Riguardo agli aspetti procedurali, la decisione di allontanamento deve essere scritta, pienamente giustificata e consentire il diritto di appello.

I recenti sviluppi in Francia
Il 28 giugno 2010, le autorità francesi hanno annunciato con una dichiarazione stampa ufficiale una serie di misure concernenti la situazione di “Viaggiatori” e Rom (“gens de voyage et Roms”), con l’obiettivo di:
Il 30 agosto, le autorità francesi hanno annunciato che già 128 campi illegali erano stati smantellati e che 979 cittadini rumeni e bulgari in posizione irregolare erano stati rimpatriati (151 forzosamente, e 828 volontariamente).
Nell’ambito di un incontro richiesto dalla Commissione europea, le autorità francesi hanno specificato di aver iniziato ad applicare tali misure già in precedenza ma di averne accelerato l’esecuzione nell’ultimo periodo.

Aspetti controversi delle misure adottate dalle autorità francesi
Secondo una valutazione preliminare, i servizi della Commissione europea hanno rilevato che ci sono dubbi sul fatto che le autorità francesi abbiano rispettato l’obbligo di valutare tutte le circostanze individuali, nonché i requisiti procedurali. Inoltre la Commissione ha ritenuto che il solo fatto che i recenti rimpatri siano stati definiti come “volontari” (e che sia stato previsto un pagamento forfettario), non è sufficiente per ritenerli fuori dal raggio di azione dei principi sulla libertà di circolazione. La Commissione ha inoltre avviato un’analisi conoscitiva su quali siano le conseguenze per chi tenta di far ritorno in Francia. Infatti il divieto di reingresso non può essere imposto ai cittadini comunitari, a meno che l’espulsione non sia stata motivata da questioni di ordine pubblico o sicurezza.

Reazioni di Parlamento e Commissione
Il 9 settembre il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione con la quale esprimeva la profonda preoccupazione che le misure adottate nei confronti dei Rom contrastassero sotto più profili con il diritto dell’Unione europea. Il Parlamento europeo ha inoltre accusato la Commissione di aver dato una risposta tardiva agli avvenimenti accaduti Francia.
La risposta della Commissione europea è stata dura: nel corso di un’intervista rilasciata il 15 settembre, la Vicepresidente Viviane Reding, accusando la Francia di discriminazioni che non più avevano avuto precedenti in Europa dalla seconda Guerra Mondiale, ha annunciato la volontà di aprire una procedura di infrazione nei confronti della Francia. La motivazione non risiedeva, però, nell’accusa di discriminazione di una minoranza etnica, ma nell’incompleta trasposizione della direttiva del 2004 sulla libera circolazione dei cittadini europei.
A seguito di contatti ripetuti con le autorità francesi e al loro impegno a risolvere la situazione, la Vicepresidente ha annunciato il 19 ottobre la sospensione della procedura di infrazione avviata nei confronti della Francia, ai sensi dell’art. 258 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea.

Conclusioni
La spaccatura che si è prodotta in seno al Consiglio europeo lo scorso 16 settembre sembra non avere precedenti. Lo scontro che si è verificato è anomalo non tanto per i toni accesi, che destano comunque preoccupazione, ma per la natura stessa della questione. Non si è trattato infatti di questioni materiali o istituzionali, come la modalità di ripartizione delle risorse o il diritti di voto. Lo strappo si è prodotto, invece, sull'interpretazione di un principio fondante, finora mai messo in discussione in forma così diretta e radicale: gli stati membri sono pronti ad accettare che la cittadinanza europea comporti diritti anche per chi non ha mezzi e rischia quindi di costituire un peso per lo stato ospite? E cosa succede se si tratta di quella che da molti viene definita la più grande minoranza europea (si oscilla tra i 10 e i 12 milioni di individui), caratterizzata da un alto grado di povertà e di marginalità sociale, ed identificata agli occhi dell’opinione pubblica da tratti di presunta omogeneità etnica e culturale che la rendono fisicamente identificabile? Qual è l’effettivo grado di tutela che l’Unione Europea è in grado di assicurare ai loro diritti in caso di trattamento discriminatorio da parte di uno o più stati membri?
Lo scontro tra le istituzioni comunitarie e la Francia, sostenuta da Italia e Repubblica Ceca, sembra ad oggi essersi sgonfiato con la dichiarazione rilasciata a nome della Commissione Europea dalla Vicepresidente Viviane Reding il 19 ottobre. La Commissione ha accettato, infatti, le rassicurazioni avanzate dal governo francese su una futura trasposizione adeguata della legislazione comunitaria. Tuttavia, osservatori internazionali, tra i quali la EU Roma Policy Coalition, rilevano come questo lasci irrisolta la situazione centinaia di persone allontanate, in modo più o meno volontario, nel corso delle scorse settimane e che non hanno avuto accesso alla giustizia.
Non bisogna sottovalutare il potenziale di riproduzione che la situazione attuale potrebbe avere in futuro. L’apparente chiusura della questione non ha dato in realtà una risposta sugli sviluppi futuri, che rimangono ancora aperti.
La risposta, almeno inizialmente severa, della Commissione europea, ma soprattutto della sua Vicepresidente Viviane Reding, é stato un segnale chiaro per gli Stati membri. Resta da vedere se da questa vicenda si svilupperanno a livello europeo una riflessione e una concertazione forieri di risultati concreti. In molti, ad esempio, auspicano la creazione di una vera e propria strategia-quadro europea sull’inclusione dei Rom.

 

Approfondimento

I principi cardine del Servizio Volontario Europeo (SVE)
L’Iniziativa faro della Commissione Europea "Youth on the move" della “strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, EUROPA 2020” è volta a migliorare le prestazioni dei sistemi d'istruzione e aumentare la mobilità internazionale dei giovani. Il Servizio Volontario Europeo (SVE) è un’ iniziativa promossa dall’ Unione Europea collocata in tale strategia, dedicata ai giovani che vogliono vivere una esperienza di volontariato per la propria crescita professionale e culturale. Alla base dell'azione SVE vi è in primo luogo l’idea per cui il volontariato costituisce per i giovani un mezzo efficace di istruzione e di formazione supplementare, che merita di essere valorizzato nel contesto europeo. Il ruolo finale dello SVE, in realtà, è quello  di sensibilizzare le giovani generazioni nell’aiuto e nella solidarietà verso gli altri e i più deboli, in un periodo in cui nelle nostre società è sempre più forte e diffuso un latente “egoismo” individualista. Al contempo, il SVE contribuisce a rafforzare un identità internazionale o più europea tra i giovani, permettendogli di acquisire esperienze professionali, o più semplicemente di vita, in altri Stati membri diversi da quello di provenienza. L’ obiettivo di incrementare l’ internazionalizzazione dei giovani, attraverso un esperienza di volontariato, è volto a creare una società multiculturale, dinamica e solidale con l’ “altro” in cui mobilità occupazione e cittadinanza europea attiva possano esserne i cardini.
Il SVE garantisce per i giovani un’ opportunità di scambio di conoscenze, di esperienze formative e viaggi d’istruzione, di arricchimento culturale, linguistico e umano  e soprattutto rafforza la consapevolezza di un' Europa unita, multilinguistica e multiculturale.

Informazioni utili sul SVE
Le attività di SVE si rivolgono ai giovani tra i 18 e 30 anni per un periodo compreso tra i 6 e i 12 mesi e i paesi che partecipano al programma SVE sono i 27 Stati Membri dell’ Unione (Austria, Belgio, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Italia, Islanda, Lettonia, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Repubblica Ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia, Ungheria).
È sufficiente avere tra i 18 e i 30 anni ed essere legalmente residente in uno dei paesi dell'Unione: la nazionalità, il livello di formazione e l'origine sociale non hanno in apparenza alcuna importanza. La sola condizione è di mettersi al servizio di un progetto locale. Va precisato che il Servizio Volontario Europeo non sostituisce il servizio militare né i sistemi di servizio civile alternativo o obbligatorio esistenti in alcuni paesi membri. È organizzato su base interamente volontaria, in funzione delle motivazioni dei giovani partecipanti; inoltre non può sostituirsi a un'occupazione remunerata, esistente o potenziale.
Le attività di SVE possono riguardare il settore dell’arte e della cultura, il supporto alle fasce più deboli (bambini, giovani o agli anziani) o interessare lo sport e il tempo libero, la protezione civile o la protezione ambientale e del patrimonio culturale.
Il SVE può essere rivolto alle seguenti iniziative: contributo alla creazione di servizi di assistenza alle persone anziane, malate o disabili; creazione di un centro di accoglienza per i senzatetto; creazione di una mensa per gli indigenti; organizzazione di un centro giovanile polivalente in un quartiere di periferia, per attività di informazione, ricreative o di espressione culturale, di formazione, di assistenza alla ricerca di occupazione, ecc.; animazione per l’infanzia, aiuto scolastico alle famiglie numerose, ecc.; innovamento urbano o ripristino di habitat naturali; Attività interculturali per l’integrazione e la lotta contro il razzismo.
Il programma non prevede una retribuzione sufficiente a coprire il totale delle spese dei volontari ma copre le spese di viaggio, vitto, alloggio e un’ assicurazione. I volontari dedicano tempo ed energie ad un progetto a favore della comunità in cui hanno una possibilità più unica che rara di integrarsi almeno parzialmente e di migliorare le proprie capacità di adattamento e conoscenze linguistiche. In cambio hanno l’opportunità di mettere in pratica le proprie competenze, di acquisire un bagaglio di conoscenze culturali e sociali e di orientarsi per il futuro.
Nell’ambito dello SVE è possibile effettuare anche un’esperienza più breve (che va da 3 settimane a 3 mesi). Questo tipo di progetto riguarda spesso gruppi di volontari che si dedicano congiuntamente ad uno stesso compito. Si rivolge in particolare ai giovani che non hanno mai viaggiato all’estero o a quelli che si trovano temporaneamente in una situazione difficile o che, per diverse ragioni non possono partecipare ad un’azione più lunga. I progetti di breve durata offrono ai giovani l’occasione di arricchire la loro esperienza, eventualmente ai fini di una futura partecipazione ad un progetto SVE di lunga durata.

Aspetti controversi del SVE e conclusioni

Rimane il dato di fatto che il SVE prevede solo un rimborso spese parziale e non economicamente vantaggioso, di conseguenza, esso richiede uno sforzo finanziario a carico del volontario e quindi il SVE non dà la possibilità a tutti di svolgere tale esperienza formativa e soprattutto non riesce a coinvolgere realmente i giovani provenienti dalle aree economicamente più deboli o dalle famiglie meno abbienti. Il rischio è quindi che le persone che dovrebbero essere più aiutate alla mobilità nella società, attraverso internazionalizzazione e valorizzazione del principio solidarietà e cittadinanza attiva (principi cardine del SVE) ne siano completamente tagliate fuori, o quasi. In realtà questo problema è un elemento presente in quasi tutti i programmi dell’Unione dedicati ai giovani e non facilita una reale mobilità, orizzontale tra paesi e verticale tra classi sociali diverse. Il problema inoltre è relativo all’esistenza di possibilità e limiti diversi,  non soltanto tra le regioni più e meno sviluppate ma tra Stati membri. Il principio del SVE della mobilità in dimensione europea può risultarne indebolito e rischia di aumentare le differenze anziché ridurle, integrarle e riadattarle in un contesto europeo. In effetti è difficile pensare che un cittadino Polacco abbia le stesse possibilità di un cittadino Svedese o Inglese di partecipazione al SVE o all’ Erasmus  in paesi dove il proprio potere d’acquisto è di gran lunga inferiore.

La qualità del sistema di formazione dipende quindi dalle sue capacità di innovarsi, comprendere e interpretare al meglio le sfide che la globalizzazione e l’integrazione europea a 27 richiedono e la sola esistenza del programma SVE, nonostante i suoi limiti contribuisce a ciò. Tuttavia non è da escludere che il programma SVE insieme agli altri programmi europei per i giovani possano essere revisionati in futuro. A tal riguardo risulta essenziale che le nuove generazioni vengano sempre seguite e supportate nell’ affacciare il proprio sguardo al di fuori dei confini nazionali, affrontando le sfide di adattamento, integrazione e conoscenza di altre culture e popoli attraverso la solidarietà e il SVE va in questa direzione, nonostante alcuni limiti sopra citati.
Il SVE continua a garantire un’ ottima opportunità per molti giovani di scambio di conoscenze, esperienze formative e viaggi d’istruzione, l'arricchimento culturale, linguistico e umano  e soprattutto la consapevolezza di un' Europa unita, multilinguistica e multiculturale.

1.4.10

 

Approfondimento

Europa 2020: la nuova strategia economica dell’Unione europea
Il 26 marzo 2010, sotto la presidenza di turno spagnola, il Consiglio europeo ha raggiunto un accordo sugli elementi principali di Europe 2020, la nuova strategia proposta dalla Commissione Europea con l’obiettivo di accompagnare l’uscita dalla crisi finanziaria e affrontare le sfide del prossimo decennio quali la globalizzazione, i cambiamenti climatici e l'invecchiamento demografico.
La comunicazione Europa 2020 - Una strategia per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, presentata il 3 marzo scorso dalla Commissione Europea, rappresenta l’evoluzione della strategia di Lisbona che, lanciata nel 2000, ha fallito nell’attuazione dei suoi obiettivi principali. Le tre priorità che sono state individuate per il prossimo decennio sono:

crescita intelligente: sviluppare un'economia basata sulla conoscenza e sull'innovazione;
crescita sostenibile: promuovere un'economia più efficiente sotto il profilo delle risorse, più verde e più competitiva;
crescita inclusiva: promuovere un'economia con un alto tasso di occupazione che favorisca la coesione sociale e territoriale.

L’UE 2020, che gira sui cardini dell’innovazione, della crescita e dell’occupazione, ha cinque obiettivi prioritari da perseguire nei prossimi dieci anni: raggiungere un tasso d’occupazione del 75% almeno per la popolazione compresa tra i 20 e i 64 anni; portare dall’1,9 al 3% del Pil gli investimenti in ricerca e sviluppo; garantire una crescita sostenibile attraverso una riconversione dell’economia e lo sviluppo della “green economy”, raggiungendo i traguardi 20/20/20 in materia di clima ed energia posti nel 2008; fare scendere sotto il 10% la quota di giovani che abbandonano la scuola e fare salire al 40% almeno la quota dei laureati; strappare 20 milioni di persone al rischio povertà, anche mediante un sostegno mirato dei fondi strutturali, in particolare del FSE, e agendo contemporaneamente sia sul fronte formazione e occupazione sia su quello della protezione sociale, nonché attuando misure specifiche dirette alle categorie particolarmente a rischio quali disabili e minoranze.

Seguendo le raccomandazioni della Commissione gli obiettivi generali saranno tradotti e suddivisi in obiettivi nazionali differenziati. La Commissione contribuirà al dibattito sugli obiettivi nazionali, lasciando la parola finale ai singoli stati membri, che elaboreranno i cosiddetti “programmi nazionali di riforma” in cui saranno indicate in modo dettagliato le azioni che i governi intraprenderanno per attuare la nuova strategia. È proprio nella presa in considerazione delle differenze tra paese e paese che risiede la grande differenza con la strategia dell’agenda di Lisbona. Ogni stato membro dovrà, infatti, presentare ogni anno il suo programma contenente i traguardi che intende conseguire rispetto ai parametri di riferimento. In seguito l’Unione valuterà se gli sforzi prodotti da ogni singolo paese sono sufficienti o meno, meccanismo già adottato in campo economico riguardo ai conti pubblici, dove gli Stati devono presentare ogni anno il programma di stabilità.

Se gli Stati 'virtuosi' saranno premiati con incentivi e agevolazioni nell'accesso ai fondi europei, quelli inadempienti saranno oggetto di raccomandazioni da parte della UE, le quali potranno essere seguite da ‘policy warning’, vale a dire veri e propri allarmi da parte della Commissione. Tuttavia non sono state previste sanzioni per gli stati inadempienti.
Quest’ultimo punto in particolare ha attirato le critiche di chi sostiene che ancora una volta sia stato proposto un modello di governo dell’economia depotenziato e perlopiù ridotto alla gestione dei tradizionali meccanismi dialettici tra le istituzioni comunitarie ed i governi degli stati membri, peraltro dimostratisi spesso inefficaci. In questo senso l’Unione Europea, anche a seguito dell’approvazione del Trattato di Lisbona che riconferma la pratica dell’unanimità nei settori strategici della difesa e della politica economica, rischierebbe di perdere la carica propulsiva che la ha caratterizzata negli ultimi decenni a favore di una riaffermazione del potere degli stati membri.
In attesa del prossimo vertice di giugno, dove verranno presentati gli obiettivi nazionali e definiti i dettagli della strategia globale, possiamo osservare come gli obiettivi individuati nella strategia proposta dalla Commissione siano chiari e facilmente misurabili: tuttavia essi non appaiono semplici da raggiungere. L’Unione Europea è ancora attraversata da molte divisioni, evidenziatesi soprattutto nell’ultimo periodo con riguardo alla crisi che ha colpito la Grecia, e molti degli stati membri sembrano non avere ancora gli strumenti e le risorse necessari per realizzare tali obiettivi.

 

Approfondimento

Il Meccanismo dei deficit eccessivi, proposte di superamento e contrasto
La politica fiscale, diversamente da quella monetaria, è di competenza dei singoli Stati dell’ area euro ma è sottoposta a precise indicazioni rectius vincoli fissati a livello comunitario, queste regole fiscali sono fissate sia nel Trattato di Maastricht sia nel Patto di Stabilità e Crescita e di Crescita e nelle sue successive modifiche.

La disciplina fiscale nel Trattato di Maastricht
Il Trattato di Maastricht in tema fiscale prevede secondo l’(art 104C) che gli stati membri debbano evitare disavanzi pubblici eccessivi, la Commissione sorveglia l'evoluzione della situazione di bilancio e dell'entità del debito pubblico negli Stati membri, al fine di individuare errori rilevanti.
In particolare esamina la conformità alla disciplina di bilancio sulla base di due criteri
a) Nel caso in cui il rapporto deficit/PIL superi un valore di riferimento previsto del 3%, salvo che il rapporto non sia diminuito in modo sostanziale e continuo e abbia raggiunto un livello che si avvicina al valore di riferimento; e il superamento del valore di riferimento sia solo eccezionale e temporaneo e il rapporto resti vicino al valore di riferimento.
b) Nel caso in cui il rapporto debito/PIL superi un valore di riferimento previsto del 60%, a meno che il rapporto non si stia riducendo in misura sufficiente e non si avvicini al valore di riferimento con ritmo adeguato.
Il trattato di Maastricht inoltre fornisce delle indicazioni sulla procedura da seguire se uno Stato Membro non rispetta uno od entrambi i criteri fiscali, a tale proposito verrà effettuata una relazione da parte della Commissione, ed una raccomandazione del Consiglio allo stato membro, nella quale verranno richieste delle misure restrittive in caso di persistenza di superamento dei limiti percentuali. Verrà poi data applicazione a contromisure più o meno sanzionatorie, ad esempio informazioni supplementari, riduzione dei prestiti europei, ammenda e deposito infruttifero.

l Patto di Stabilità e Crescita (PSC)
Il Patto di Stabilità e Crescita nasce dal riconoscimento da parte dell’UE dell’importanza cruciale di garantire la continuazione della disciplina di bilancio inizialmente prescritta per la terza fase dell’Unione Economica e Monetaria iniziata il 1° gennaio 1999.
L'obiettivo è garantire che, anche una volta introdotta la moneta unica, venga mantenuta la disciplina seguita dagli Stati membri in materia di bilancio. Il PSC in questo quadro rafforza il riferimento del Trattato e chiarisce la procedura da adottare in presenza di deficit pubblici eccessivi.
Formalmente, il patto di stabilità e di crescita è costituito da una serie di atti comunitari e del consiglio europeo tra i quali il più importante risulta essere quello legato alle misure repressive nei confronti degli stati Regolamento (CE) n. 1467/97 sulle modalità di attuazione della procedura per disavanzo eccessivo quando uno Stato membro supera il valore di riferimento, vale a dire un disavanzo superiore al 3% del prodotto interno lordo (PIL) (parte repressiva)
L’impegno cruciale chiesto dal PSC è il perseguimento dell'obiettivo a medio termine consistente nel raggiungimento di un saldo del bilancio vicino al pareggio o positivo, che permetterà agli Stati membri di affrontare le normali fluttuazioni cicliche mantenendo il deficit pubblico entro il valore di riferimento del 3 % del PIL il patto risulta così un meccanismo- autodisciplinante con l’obiettivo di politica fiscale solida e margini adeguati di politiche anti-cicliche

Attuazione del Patto di Stabilità e Crescita
La procedura dei deficit eccessivi viene avviata se uno Stato membro supera il criterio del disavanzo pubblico, fissato al 3% del prodotto interno lordo (PIL). Se il Consiglio rileva un disavanzo eccessivo, invia delle raccomandazioni allo Stato membro interessato affinché adotti le misure necessarie per porre fine a tale situazione. Se lo Stato membro non si conforma alle raccomandazioni o non prevede le misure destinate a porre rimedio alla situazione, il Consiglio può adottare sanzioni contro tale paese, in un primo momento sotto forma di deposito senza interessi presso la Comunità, il deposito in questione viene in linea di principio convertito in ammenda se, nei due anni che seguono, il disavanzo eccessivo non viene corretto.
L’identificazione e la richiesta di correzione, nel caso in cui venga individuato un disavanzo eccessivo nei conti pubblici di uno Stato si realizza quando il Consiglio formula contemporaneamente allo Stato membro interessato le raccomandazioni; entro un termine massimo di quattro mesi lo Stato membro deve mettere in pratica la correzione del deficit eccessivo che dovrebbe essere completata nell'anno successivo alla constatazione del disavanzo eccessivo, ammesso che non sopraggiungano circostanze eccezionali.
Ci sono poi una serie di sanzioni cui lo stato deve far fronte nel caso in cui non adempia alle raccomandazione che sono state intimate. La costituzione di un deposito infruttifero (in % del PIL e in % della differenza tra deficit/PIL e obiettivo 3%) che a seconda della riduzione del deficit viene abrogato o convertito in ammenda.

5.3.10

 

Approfondimento

Il Protocollo di Kyoto
Il Protocollo di Kyoto (.pdf) venne adottato l'11 dicembre 1997 nel corso della Terza Sessione della Conferenza delle Parti sul clima (istituita nell’ambito della Convenzione Quadro sul Cambiamento Climatico delle Nazioni Unite) e ratificato dall’Unione Europea e dagli Stati membri il 31 maggio 2002. Per l'entrata in vigore del Protocollo si dovette tuttavia attendere il 16 febbraio 2005 poiché le disposizioni contenute in esso stabilivano che il testo sarebbe divenuto vincolante solamente una volta che un gruppo di nazioni, avente un livello di emissioni pari al 55% del totale mondiale, lo avesse ratificato. Questa condizione si è verificata nel 2004, quando con la ratifica da parte della Russia i paesi firmatari sono arrivati a rappresentare il 61,6% delle emissioni totali. Allo stato attuale i paesi che hanno aderito e ratificato il Protocollo sono 184.

L'obiettivo principale che il documento si pone è quello di ridurre, a livello globale, le emissioni dei gas legati all'effetto serra (biossido di carbonio, metano, ossido di diazoto, idrofluorocarburi, perfluorocarburi ed esafluoruro di zolfo) e il target fissato è di una riduzione delle emissioni di gas serra pari almeno al 5% nel quinquennio 2008-2012, utilizzando come parametri di riferimento i valori del 1990. Il documento prevede impegni di riduzione differenziati da paese a paese e, nel caso dell’Unione Europea, l’obiettivo prevede la riduzione delle emissioni per un valore pari almeno all’8%.
Secondo la relazione dell’Agenzia europea per l’ambiente, resa pubblica nel novembre 2009, l'Unione Europea riuscirà a rispettare gli obiettivi fissati a Kyoto e a procedere, entro il 2012, ad una riduzione totale pari a circa il 13% rispetto all'anno di riferimento. Tale risultato, purché indubbiamente positivo, non deve tuttavia essere sovrastimato poiché si deve considerare che tale obiettivo non è stato raggiunto solamente attraverso il taglio delle emissioni ma attraverso un sistema combinato di politiche che hanno visto i paesi europei acquistare crediti derivanti da progetti finalizzati a ridurre le emissioni localizzati all’esterno del territorio europeo, procedere allo scambio di quote di emissione da parte dei paesi partecipanti al sistema di scambio delle quote di emissione nell’UE (il cosiddetto Emission trading Scheme) e attuare interventi di incremento della superficie boschiva e silvicola destinata all’assorbimento dell’anidride carbonica presente nell’atmosfera. Per il 2020 l’obiettivo che l’Unione Europea ha dichiarato di volere raggiungere è invece ancora più ambizioso poiché prevede un taglio del 20% delle emissioni (utilizzando, anche in questo caso, come parametro di riferimento i dati del 1990). Questa decisione si colloca all’interno della strategia denominata “Azione per il clima” , la quale prevede di ridurre del 20% le emissioni dei gas responsabili dell’effetto serra, ridurre del 20% i consumi energetici e soddisfare il 20% del fabbisogno energetico attraverso l’utilizzo di fonti rinnovabili.

Nonostante i risultati positivi ottenuti dall’Unione Europea il Protocollo di Kyoto presenta tutt’oggi degli elementi di debolezza che ne limitano fortemente il potenziale. Il primo è sicuramente rappresentato dalla mancata ratifica del Protocollo da parte degli Stati Uniti, i quali si sono da sempre opposti a qualsiasi adesione ai principi del Protocollo di Kyoto. Il secondo è invece rappresentato dal fatto che paesi come Cina e India sono riluttanti a imporre limiti alle proprie emissioni inquinanti, in un momento nel quale la loro crescita economica appare sempre più significativa. Questo comportamento si basa sull’assunto che essendo stati essi paesi scarsamente industrializzati fino ai primi anni ’90 non possono essere loro imputate le stesse responsabilità degli altri paesi nell’aver determinato la situazione attuale e, per questo, devono essere prima i paesi inquinatori di vecchia data a tagliare le emissioni e, solo successivamente i paesi di recente industrializzazione. Se si considera che la Cina da sola produce il 22% delle emissioni globali e gli Stati Uniti il 18% è facile comprendere come la mancata volontà delle due superpotenze di imporsi dei limiti alle emissioni rappresenti un ostacolo molto evidente all’efficacia di una politica concertata a livello mondiale di riduzione delle emissioni. In questo contesto i vari paesi stanno operando in maniera indipendente, cercando di elaborare piani di riduzione a lungo termine. A titolo di esempio Obama ha recentemente dichiarato che gli Stati Uniti ridurranno le loro emissioni del 28% entro il 2020 mentre, nello stesso arco di tempo, la Cina, stando alle dichiarazioni di Hu Jintao, ridurrà le emissioni di un non determinato “margine notevole”. La vera sfida per i prossimi anni sarà quella di riuscire ad arrivare ad una nuova intesa che permetta di sostituire il Protocollo di Kyoto, in scadenza nel 2012, impresa tutt’altro che facile come dimostrano gli scarsi risultati ottenuti nell’ambito del vertice di Copenaghen

Documenti di approfondimento:
2002/358/CE: Decisione del Consiglio, del 25 aprile 2002, riguardante l'approvazione, a nome della Comunità europea, del protocollo di Kyoto allegato alla convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e l'adempimento congiunto dei relativi impegni

Programma europeo per il cambiamento climatico

Testo completo del Protocollo di Kyoto


 

Approfondimento

Approfondimento: Il terremoto di Haiti
Il terremoto di Haiti è stato un fenomeno catastrofico di magnitudo 7,0 M, l’epicentro è stato localizzato nelle vicinanze della capitale haitiana Port au Prince (25 chilometri in direzione ovest- sud-ovest) della città.
La scossa principale si è verificata martedì 12 gennaio nel fondale marino prospiciente la città di Port au Prince. Lo United State Geological Survey (USGS) ha registrato una lunga serie di repliche nelle scosse, nelle ore successive al sisma buona parte delle quali si avvicinano alla magnitudo della prima catastrofica scossa. Il numero di vittime stimato è di circa 300 mila. L’entità dei danni materiali provocati dal sisma è ancora in parte da valutare e vagliare. Secondo l’ONU e la Croce Rossa Internazionale il terremoto avrebbe coinvolto più di 3 milioni di persone.
Alla fornitura di aiuti ed alla successiva ricostruzione stanno partecipando molto soggetti tra cui vari stati Europei, Le ONG, l’ONU e gli stati. Per la ricostruzione delle zone più colpite saranno resi disponibili da parte della Commissione Europea (DG ECHO) e da altre organizzazioni europee in un primo finanziamento circa 200 milioni di euro che saranno seguiti poi per il periodo post emergenza da un ulteriore finanziamento di altri 200 milioni, a cui si aggiungono i 92 milioni stanziati singolarmente dai paesi europei.
I paesi dell’UE hanno risposto prontamente all’emergenza mettendo in moto il meccanismo della Protezione civile Europea che ha consentito alla Commissione di coordinare l’assistenza fornita dai vari Stati membri. Le squadre di ricerca e di lavoro dal tempo sul posto hanno distribuito tra la popolazione i materiali essenziali quali i prodotti per la depurazione delle acquee, tende, ospedali da campo, la rapida valutazione dei danni effettuata dal Centro comune di ricerca della protezione civile europea ha permesso di strutturare le misure di soccorso e assistenza, ed aiutare anche a programmare le successive attività di ricostruzione.
Il Commissario europeo per lo Sviluppo e gli aiuti umanitari Karel De Gucht si è recato a Port au Prince nei giorni immediatamente successivi alla scossa che ha devastato la città haitiana, in questa occasione ha incontrato le autorità dell’isola, i rappresentanti dell’ONU e dei soggetti attivi sul fornite dei soccorsi, per arrivare ad un coordinamento di tutti gli sforzi da compiere sul campo.
L’emergenza ad Haiti generata dal disastroso terremoto del 12 gennaio sin dal principio si è dimostrata particolarmente complessa, sta per questo rappresentando una sfida per l’Europa e per gli altri stati del mondo e per le organizzazioni non governative nel coordinamento puntuale degli aiuti e nella difficile missione di ricostruzione delle infrastrutture più necessarie.
La distribuzione dell’acqua continua ad essere una priorità, ci sono infatti notevoli difficoltà in questa azione così come anche le difficoltà nell’approvvigionamento anche a causa della mancanza di carburante. A tale proposito le ONG stanno cerando di trasferire circa 450 000 litri al giorno di carburante al giorno dalla vicina Repubblica Dominicana, inoltre l’ WFP sta lavorando molto intensamente per la distribuzione di razioni alimentari per cui non è prevista una ulteriore diminuzione.
La situazione della viabilità e quindi della possibilità di trasportare gli aiuti rimane critica a causa della pessima condizione in cui si trovano le strade afferenti la città di Port Au Prince, gli aeroporti della Repubblica Dominica comunque continuano ad essere un fondamentale mezzo per l’invio delle provvigioni.
Per essere informati sullo stato degli aiuti e del coordinamento tra organizzazioni non governative ed ONU sull’isola sono disponibili alla consultazione i due seguenti siti: http://haiti.oneresponse.info
http://plataforma-ayuda-haiti.blogspot.com
Per l’isola di Haiti non è tuttavia ancora entrata in vigore la fase post-emergenza poiché in questa fase è molto difficile eseguire una chiara identificazione dei bisogni che possano restare validi anche nei mesi a seguire quando davvero si realizzerà la fase di post emergenza e di ricostruzione fisica, economica e morale di una intera nazione già segnata da problemi atavici di povertà e sottosviluppo.
Di seguito alcuni link utili per una maggiore comprensione dell’argomento
Aiuti in azione ad Haiti
Foto del terremoto di Haiti
Mappa dettagliata degli aiuti UE

17.12.09

 

Approfondimento

La sicurezza alimentare: una strategia integrata dall'Unione Europea al locale


L'Unione Europea e la sicurezza alimentare

La globalizzazione della catena alimentare fa emergere costantemente nuove sfide e rischi per la salute e gli interessi dei consumatori europei. Di fronte a questa situazione, l'Unione Europea ha sviluppato una politica di sicurezza alimentare finalizzata a massimizzare il livello di tutela dei consumatori in relazione ai prodotti alimentari. Per realizzare tale obiettivo, l'UE intende garantire la sicurezza e l'adeguata etichettatura dei prodotti alimentari (compresi i prodotti tradizionali), tenendo conto della loro diversità e assicurando allo stesso tempo il corretto funzionamento del mercato interno. L'UE ha quindi messo a punto un pacchetto completo di provvedimenti legislativi in materia di sicurezza alimentare, che viene costantemente verificato e adattato ai nuovi sviluppi. Tali provvedimenti si fondano sull'analisi dei rischi: l'istituzione dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA), che fornisce consulenze scientifiche indipendenti sui pericoli esistenti ed emergenti, ha apportato un contributo fondamentale in termini di sostegno alle attività svolte dalle istituzioni dell'UE a tutela dei consumatori europei in questo settore.

Il principio guida della politica dell'UE in materia di sicurezza dei prodotti alimentari consiste nell'applicazione di un approccio integrato "dal produttore al consumatore", tenendo conto di tutti i settori della catena alimentare: produzione di mangimi, aspetti fitosanitari e veterinari, benessere degli animali, produzione primaria, trasformazione, immagazzinamento e trasporto degli alimenti, vendita al dettaglio, importazione ed esportazione. Questo approccio globale e integrato, nel quale le responsabilità degli operatori del settore alimentare e delle autorità competenti sono espressamente definite, è sinonimo di una politica alimentare più coerente, efficace e dinamica.

...e la sicurezza dei consumatori.

L’Unione Europea ha creato con successo un mercato interno in cui circolano liberamente beni e servizi a beneficio dei consumatori. Onde consentire a questi ultimi di acquistare ovunque servizi e prodotti sicuri a precise condizioni e senza sorprese, l’UE ha adottato un quadro giuridico per la politica dei consumatori. Le misure legislative e di altra natura sono finalizzate a promuovere gli interessi, la salute e la sicurezza dei consumatori nel mercato interno, a garantire che tutte le politiche comunitarie tengano adeguatamente conto delle loro preoccupazioni e ad integrare la politica nazionale dei consumatori negli Stati membri. Da un lato, i produttori sono obbligati ad immettere sul mercato esclusivamente prodotti sicuri; nel caso di produttori extracomunitari, l’obbligo incombe al loro rappresentante o importatore nell’UE. Nessun prodotto accessibile ai consumatori deve presentare rischi di alcun genere, o perlomeno nulla di più del rischio minimo dovuto all'utilizzo del prodotto in circostanze normali o prevedibili. Dall’altro lato, gli stessi consumatori devono tenersi il più possibile aggiornati sulla sicurezza dei prodotti acquistati.

L’UE promuove attivamente norme rigorose in materia di sicurezza dei consumatori e sostiene le organizzazioni dei consumatori al fine di rafforzare il ruolo dei loro rappresentanti nel processo decisionale. Uno degli obiettivi principali consiste nel rendere i cittadini europei consapevoli dei propri diritti. Informazione e sensibilizzazione sono pertanto attività essenziali, che devono essere affrontate in collaborazione con le autorità nazionali.



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